La Foresta di Paneveggio

Immediatamente a valle del lago artificiale di Paneveggio – o di Forte Buso, dal nome del vicino forte austriaco – la statale 50 che sale da Predazzo entra nel Parco Naturale. Vi si snoda per circa 15 chilometri, fino a poco oltre Passo Rolle, a monte di San Martino di Castrozza. Il lago, della capacità di circa 30 milioni di metri cubi, è frutto di uno sbarramento artificiale costruito negli anni Cinquanta, una imponente diga di calcestruzzo ad arco-gravità ancorata sulla rupe di porfido. Tramite condotte sotterranee le acque sono convogliate sul lato opposto della catena del Lagorai, alla centrale di Caoria. Poco oltre il lago si trova il piccolo abitato di Paneveggio.


Anticamente qui vi era un ospizio che, insieme a quello dei Santi Martino e Giuliano a Castrozza, serviva ai viandanti che affrontavano i passi di Rolle e di Valles per malagevoli sentieri. Con la nascita del turismo nella seconda metà dell’Ottocento l’ospizio fu trasformato in albergo. Era affiancato da una chiesetta costruita nel 1733 e da alcune segherie e depositi di legname. Paneveggio è al centro della foresta demaniale che copre i due versanti dell’alta Val Travignolo, dalle pendici di Cima Bocche al Colbricon, la Val Venegia e la valle del Rio Vallazza oltre il Pian dei Casoni.

Vicende della foresta

La foresta di Paneveggio ha una lunga storia. Fu per secoli proprietà del Principe del Tirolo, e viene citata come proprietà erariale in ordinanze forestali del 1651 e del 1698. Nel 1847 l’Imperatore d’Austria riconobbe il diritto di sovranità principesca esclusiva sulle foreste erariali del Tirolo. Era previsto comunque che in seguito, per concessione del sovrano, alcune porzioni delle foreste potessero essere date in proprietà ai Comuni, a titolo di risarcimento per gli antichi diritti di servitù.

Da questa legge restarono determinati i rapporti di proprietà di boschi e pascoli in Trentino: le attuali Foreste Demaniali sono la parte che restò ininterrottamente di proprietà principesca e non venne mai ceduta alle Comunità locali, passando nel 1919 direttamente allo Stato italiano e quindi, dal 1951, alla neo-istituita Regione a statuto speciale Trentino Alto-Adige. Infine, nel 1973, con il secondo statuto di Autonomia, le foreste furono attribuite alla Provincia Autonoma di Trento.

Circa 700 ettari di pecceta situata nel Parco, a contatto con la foresta demaniale, hanno una diversa origine: sono una piccola parte dell’enorme patrimonio forestale della Magnifica Comunità di Fiemme, una sorta di piccola repubblica rustica che affonda le proprie radici nel XII secolo. Al 1110, infatti, risale un patto con cui il principe-vescovo di Trento, Gebardo (da cui il nome di “Patti Gebardini”), assicurava ai Comuni della valle riuniti in Comunità un’autonomia amministrativa, che si concretizzò ben presto nell’affermazione del diritto di proprietà sui boschi di Fiemme, destinati ai bisogni delle chiese, al “rifabbrico” e alle necessità degli abitanti della valle. Nei secoli passati i boschi di Fiemme vennero affittati per brevi periodi a mercanti forestieri, finché, a partire dal Settecento, la Comunità assunse in proprio la gestione del patrimonio forestale. Analogamente a quelli di Paneveggio, i legnami dei boschi di Fiemme rifornirono la Repubblica di Venezia (i documenti della Serenissima parlano della Comunità come “Magnifica Sorella”).

A partire dall’età napoleonica l’autonomia della Magnifica Comunità di Fiemme fu limitata, ma ancora oggi questa istituzione esiste come organo che amministra il grande patrimonio forestale, ripartendo il reddito fra tutte le famiglie della valle in base a consuetudini antiche. Due secoli fa la foresta aveva un’estensione pari a un terzo di quella attuale, a causa dello sfruttamento intensivo per rifornire di legname i cantieri della Repubblica di Venezia.

Nel corso della prima guerra mondiale, poi, il fronte l’attraversò per quasi tutta la durata del conflitto e la massa di legname abbattuta in quel periodo corrisponde a quanto, con la gestione attuale, si abbatte in trent’anni. Gravi danni furono provocati anche da un violento ciclone abbattutosi nel 1926 e dall’alluvione del 1966 (se ne vedono tracce, fra l’altro, in un punto accuratamente segnalato nel sentiero di Val Miniera, sul Rio Bocche).

L’aspetto di questa foresta è dunque il risultato di un lungo intervento dell’uomo: lo strumento con cui oggi la foresta viene gestita per garantire la sua produttività e la sua conservazione nel tempo è un periodico Piano di gestione forestale, basato su attenti rilievi dei caratteri del bosco. Il primo Piano risale al 1876, ed esso è rinnovato ogni 10 anni. Oggi la gestione economica e la sorveglianza della foresta sono affidate all’Agenzia Provinciale del Demanio, che cura anche le fasi della trasformazione del legno e la vendita del prodotto.

L’estensione attuale della foresta di Paneveggio è di circa 2700 ettari. Lo strato arboreo è costituito in prevalenza (85%) da abete rosso (Picea abies), che occupa la fascia altimetrica compresa fra i 1500 e i 1900 metri. Più in alto, fin verso i 2200 metri, diventano più frequenti il larice (Larix decidua) e il pino cembro (Pinus cembra). Nella rinnovazione della cembreta ha un ruolo importante la nocciolaia (Nucifraga caryocatactes): nel periodo di maturazione dei pinoli, infatti, questo corvide crea vere e proprie dispense di tali semi, che utilizza poi nei periodi di magra.

In alcuni casi, però, scorda l’ubicazione delle riserve, dalle quali in primavera germogliano nuove piantine. L’abete bianco (Abies alba) è più diffuso nel tratto di foresta di fronte a lla frazione di Bellamonte (quindi fuori dal Parco), anche se lo si trova fin verso Paneveggio, per esempio in località Val dei Buoi. Il faggio manca completamente. Assai scarse le altre latifoglie; solo presso il lago e sulle sponde del torrente, alle quote più basse, crescono pioppi tremuli, sorbi, betulle, salici, aceri di monte e ontani.

Ad alta quota, in zone poco accessibili (per esempio in Val Ceremana, dove la crescita degli alberi è lentissima e dove non si effettuano tagli forse da settant’anni a questa parte), ma anche più in basso, nella riserva forestale della Val dei Buoi, vi sono nuclei di bosco lasciati all’evoluzione spontanea, che restituiscono alla foresta il suo aspetto più naturale. Col tempo, questo si potrà forse dire anche delle zone più basse, perché i nuovi piani forestali prevedono che i tronchi da tagliare siano scelti in modo da favorire la convivenza di esemplari di età diverse (come accade nelle foreste allo stato naturale) e che rami e tronchi caduti vengano in parte lasciati in loco, ad aumentare la biomassa sul terreno. La pulizia del sottobosco, in realtà, è legata da antica data allo sfruttamento economico: è un modo per ridurre la proliferazione di un pericoloso insetto, il bostrico (Ips typographus), che in determinate condizioni può portare alla distruzione di notevoli quantità di abete rosso, in quanto scavando gallerie sotto la corteccia distrugge i percorsi linfatici della pianta.

La nostra attenzione è sovente attratta dal rumore caratteristico del picchio. Vi sono nelle foreste del Parco cinque specie di Picidi accertate; ricordiamo il raro picchio tridattilo (Picoides tridactylus), del quale si è scoperta la presenza da pochi anni, e il picchio nero (Dryocopus martius), più frequente abitatore delle peccete. Ma fra la ricca avifauna possiamo ricordare anche varie specie di Silvidi come il regolo (Regulus regulus) e la capinera (Sylvia atricapilla); di Paridi quali le cince (Parus ssp); di Turdidi come la cesena (Turdus pilaris), la tordela (Turdus viscivorus); inoltre il merlo acquaiolo (Cinclus cinclus), assiduo frequentatore dei corsi d’acqua e il rampichino alpestre (Certhia familiaris), caratteristico per la capacità di arrampicarsi sui tronchi eseguendo una linea elicoidale. Nel sottobosco di Paneveggio dominano i mirtilli rosso e nero (Vaccinium vitis-idaeaV. myrtillus) e si può osservare anche un esteso strato muscoso.

Nei tratti più fertili e umidi (lungo i torrenti) si trovano popolazioni di farfaraccio bianco (Petasites albus), mentre nelle radure ombrose delle parti più fresche è diffuso il cavolaccio alpino (Adenostyles alliariae). Non è difficile, tra l’enorme varietà d’insetti, riconoscere i grossi nidi, fatti di ramoscelli e aghi di conifera, della formica rufa(Formica rufa), che è presente in tutte le peccete del Parco. È questa una specie ritenuta di grande importanza nei sistemi boschivi per la sua attività di “spazzino” e di predatrice d’insetti. Il versante in sinistra Travignolo, esposto a nord, presenta uno strato di muschi più diffuso e una minore ricchezza floristica rispetto a quello in destra Travignolo, a sud, più ricco di specie e con meno Briofite (muschi). Questa asimmetria è dovuta anche all’affioramento di rocce carbonatiche sul versante a sud. La pecceta, affascinante per l’ombra, la vastità, la complessità, è oggetto da molto tempo di accurati studi sull’ecologia, l’accrescimento e sul danneggiamento che gli Ungulati provocano alla rinnovazione forestale.

“Marco” e i cervi di Paneveggio

L’incontro con il cervo (Cervus elaphus) è immediato per chi entra nel territorio del Parco dalla Val Travignolo. Ne ammiriamo un gruppo, in un grande recinto nei prati di Paneveggio, non lontano dal Centro visitatori. Solo da poco più di trent’anni il cervo popola di nuovo la foresta di Paneveggio; da decenni era ormai estinto nel Trentino orientale. Nel 1957 un nucleo di tre cervi (un maschio – a cui era stato dato il nome di Marco – e due femmine, provenienti dall’alta Val di Sole e dal Feltrino) fu ospitato in un primo recinto allestito presso la cantoniera di Paneveggio dall’amministrazione delle foreste demaniali.

Da questo gruppo si originò un nucleo che nel 1963 contava una dozzina di capi. In quell’anno capitò nella zona un maschio selvatico, proveniente forse dall’Alto-Adige, e nel periodo degli amori ingaggiò un combattimento con Marco. Ne fece le spese la recinzione, danneggiata dalla lotta; da un varco uscirono i cervi, che si stabilirono nei dintorni, nella foresta. Più tardi le femmine capostipiti rientrarono nel recinto con i loro piccoli e Marco; gli altri cervi restarono in libertà. Da quel “rilascio” fortuito ha avuto origine la popolazione di cervi di Paneveggio e dell’alta Val Travignolo, diffusasi recentemente in buona parte del Trentino orientale: oggi si contano oltre 500 esemplari nel Parco (anche nel Vanoi e nella valle del Cismon).

Dal recinto di Paneveggio, ampliato a circa 6 ettari, ogni anno vengono prelevati esemplari che servono per il ripopolamento di altre zone protette; nella foresta, invece, non sono stati più rimessi in libertà altri capi. Non è facile vedere questi animali fuori dal recinto; si tratta infatti di una specie molto elusiva, in grado di far perdere le proprie tracce per quasi tutto l’anno. Nel periodo degli amori, però, i maschi fanno sentire la loro presenza con l’emissione di versi caratteristici – i bramiti – che riempiono il silenzio del bosco nelle fredde notti autunnali.